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TUTTO QUESTO POTEVA NON ACCADERE (?)
di Valeriana Mariani
Quando si parla di crisi economica inevitabilmente le colpe di adducono al capitalismo finanziario discettando di come l’unica soluzione per abbattere le disuguaglianze sia rappresentata dal ritorno a una specie di socialismo democratico. Diciamo invece che la politica si è dimostrata inadeguata: da un lato, non ha più nessun tipo di controllo sui meccanismi profondi dell’economia e non è in grado di invertire il meccanismo perché è molto difficile rimettere il dentifricio nel tubetto; dall’altro, ha rinunciato a qualsiasi analisi della società – limitandosi alla policy lasciando stare la poltics – per offrire un’alternativa visionaria, con parole nuove, metodi nuovi e diversi. Si attacca la finanza, non per metterne in discussione i meccanismi, ma perché ha ridotto la percezione della ricchezza dopo anni e anni di sovradimensionamento della retorica dell’abbondanza e quelle vite a credito che, per dirla con il solito Bauman, non possiamo più permetterci. Quello che manca, probabilmente, è un’avanguardia intellettuale che sia in grado di rispondere alla domanda: Quale soluzione?

La risposta è probabilmente nella capacità di uscire dai gangli di un conservatorismo di fondo che porta anche la generazione dei trentenni a pensare secondo categorie tradizionali, magari non totalmente sconfitte dalla storia, ma inadatte ad affrontare una situazione che sta evolvendo giorno dopo giorno. Non possiamo continuare a credere che le alternative siano o un cambiamento per il cambiamento in sé, o un ritorno a ricette di protezione economica e sociale che – da destra come da sinistra – non tengano conto della infinita complessità dell’attuale scenario. Forse dovremmo anche smettere di pensare alla “crisi” come un momento di passaggio, che si pone tra un prima e un dopo, come una fase anti-ciclica classica. Forse dobbiamo pensare alla “crisi” come una ridefinizione totale, un’occasione per riconfigurare le nostre categorie, i nostri strumenti analitici e i nostri obiettivi sociali e politici. Dovremmo ridare alla parola “futuro” la sua dignità dopo che per anni è stata usata in modo strumentale, svuotandola di qualsiasi significato. Fare i conti con il presente implica l’adeguarsi alla precarietà esistenziale e del lavoro e percepirla (perché no?) come l’occasione di sperimentare, soprattutto per i più giovani, nuovi stili di vita e nuove gerarchie di valori. Una riflessione antropologica che se non offre risposte (abbiamo ormai compreso che la formula magica non esiste) almeno propone di utilizzare delle chiavi di interpretazione diverse. Il sentimento di totale impotenza è certamente la manifestazione più grave della crisi di presenza; il malessere, il senso di inutilità, di impotenza, di insignificanza si manifestano in forme non tanto drammatiche, quanto depressive: se il mondo si ritira dal soggetto, il soggetto si ritira dal mondo, che, dal punto di vista esistenziale, per lui si riduce, si fa sempre più piccolo, vuoto, insignificante. Forse dobbiamo ripartire da qui. Da cosa è successo. Senza perdere ulteriore tempo a chiederci come tutto questo poteva non accadere. Muoverci consapevoli di uno scenario “post”. La crisi che abbiamo/stiamo attraversando è una sintesi di più crisi. Come se si fossero accumulate una sull’altra per poi esplodere sul fuoco dell’economia: crisi della famiglia come istituzione; crisi dell’individuo; crisi del concetto di lavoro; crisi dell’edonismo e del senso di colpa; crisi del consumismo; crisi dell’identità; crisi delle istituzioni; crisi della politica e crisi del politico (sono due faccende differenti). Tutti elementi interconnessi e consequenziali. Dall’idea di lavoro come elemento fondamentale per l’identità di una comunità, al concetto di famiglia passato attraverso una crisi comportamentale che ha portato al “genitore amico” fino alla costruzione di nuovi e inediti nuclei familiari come nucleo per il riscatto personale della persona (…è sorprendente l’unanimità con la quale tutti indicano nella famiglia l’istituzione più importante a cui sentono di appartenere, quella alla quale non vogliono e non possono rinunciare. In verità, quando parlano di famiglia, intendono la coppia che hanno costruito); dal distacco dalle istituzioni (che va a legarsi a una più generale sfiducia nei confronti della politica) alla incapacità di far fronte all’età dell’incertezza perché non abituati alle crisi e non abituati alla mancanza di orizzonte e “non essere” della persona. Una radiografia piuttosto complessa l’Italia di oggi. Un paese che negli ultimi anni ha visto aumentare la percezione della sfiducia, con gli stipendi più bassi d’Europa, le forme di lavoro più umilianti – in cui non si cresce, non ci si forma e spesso non si viene nemmeno pagati – e dove la libera iniziativa viene guardata con sospetto e non esistono forme di welfare che facciano sentire gli under 35 al sicuro nella loro volontà di sperimentare e cercare di costruire. Se nel Belpaese i giovani hanno paura di vivere la propria vita perché non vogliono finire sotto un ponte, allora c’è qualcosa che non va. Quello che resta da capire è il passaggio successivo.
Quali forme di organizzazione possiamo darci per agire sulle macerie di quella che abbiamo chiamato, fino all’altro ieri, società? La necessità è quella di darsi un orizzonte più ampio, uscire dall’utilitarismo dello scopo quotidiano, della sopravvivenza. Ripartire dal concetto di comunità, costruire spazi di aggregazione e definire linee di azione concreta e fattuale. Secondo me, l’opportunità che arriva dal crollo del mondo come lo conosciamo, potrà essere rappresentata dalla costruzione di comunità solidali in cui l’individuo torna al centro, ma come motore di un progresso collettivo. Fare rete, come metafora, non potrebbe mai essere così efficace. Una rete che si costruisce attorno a parole nuove, o parole tradizionali con significati rinnovati, che rappresentino davvero nuovi orizzonti. Tornare a considerare ogni nostro gesto un gesto politico. E considerarlo nell’ottica di una comunità che deve rinascere, ricostruirsi e ridefinirsi. Se gli under 35 continueranno ad interpretare il mondo con le categorie di chi è arrivato prima di loro, avranno fallito la loro missione… dovrà pure esserci un antidoto naturale alla rassegnazione, non credete?